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Corriere della Sera,25-4-2005, p. 31

Il caso Kennedy: anche gli americani credono ai complotti

In alcune recenti trasmissioni televisive d'inchiesta, l'uccisione del presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, a Dallas nel 1963, secondo attuali ricostruzioni, viene fatta risalire al gesto isolato di un fanatico e cioè Lee Oswald. Questa interpretazione, controcorrente rispetto a ciò che è stato raccontato in alcuni recenti film e documentato in altre precedenti inchieste, mi ha sconcertato per la sua disarmante e, a me sembra, eccessiva semplicità.Nicola Caprioli, Trani (BA)

Caro Caprioli,
suppongo che lei si riferisca, in particolare, a un film di Oliver Stone del 1991, intitolato "JFK", in cui la morte di Kennedy è attribuita a un complotto di palazzo ordito da ambienti politici e militari che volevano costringere il Paese a impegnarsi militarmente in Vietnam. Il film è realizzato con lo stile nervoso delle grandi indagini televisive. La macchina da presa di Stone sembra entrare nei palazzi del potere per registrare "in diretta" le trame e le menzogne della classe dirigente. Ma il regista non tiene alcun conto del fatto che i consiglieri militari degli Stati Uniti in Vietnam erano progressivamente aumentati proprio durante la presidenza Kennedy sino a toccare nel 1963 il numero di 18.000. Il film appartiene al filone fantapolitico della cinematografia americana: un genere che riflette le convinzioni politiche dell'autore e che lo spettatore dovrebbe guardare con il distacco con cui leggiamo i grandi gialli politici di Eric Ambler e di John Le Carré. La realtà è alquanto diversa. Il 29 novembre 1963, sette giorni dopo l'assassinio di Kennedy, il nuovo presidente Lyndon B. Johnson nominò una commissione d'indagine e ne affidò la presidenza a un magistrato, Earl Warren, già governatore della California. Della commissione fecero parte, insieme ad alcuni senatori e rappresentanti democratici e repubblicani, due persone che avevano avuto incarichi importanti nel servizio pubblico del Paese: Allen Dulles, ex direttore della Cia, e John McCloy, assistente segretario alla Guerra e più tardi alto commissario americano in Germania. La commissione ricostruì minuziosamente i fatti: i tre colpi di fucile che raggiunsero Kennedy e il governatore del Texas John B. Connally alle 12.30, l'assassinio di un poliziotto alle 12.33, l'arresto di Oswald poco dopo le 13.40, l'assassinio di Oswald in un corridoio del Dipartimento di polizia di Dallas alle 11.23 del 24 novembre. Oswald era stato nel corpo dei marine ed era fuggito in Unione Sovietica dove aveva cercato di rinunciare alla cittadinanza americana. Il suo assassino Jack Ruby era direttore di un night club di Dallas. Questa straordinaria sequenza di eventi e circostanze giustificava dubbi e sospetti. Oswald era un assassino solitario o il sicario di un complotto? Era stato reclutato dai servizi sovietici o da gruppi americani ostili alla politica di Kennedy? Perché Jack Ruby aveva deciso di ucciderlo? Come era riuscito a introdursi nel Dipartimento di polizia? Per dieci mesi, sino al settembre del 1964, la commissione raccolse tutti i rapporti dei diversi servizi di sicurezza degli Stati Uniti, avviò le proprie indagini, interrogò testimoni e lavorò a porte chiuse, fuorché nei casi in cui l'interrogato preferì una pubblica seduta. Alla fine del suo lavoro produsse un rapporto di 888 pagine da cui risultò che Oswald aveva agito da solo e che Ruby non aveva complici. Dalla lettura delle conclusioni emerge l'impressione che Oswald e Ruby fossero, su piani e per ragioni diverse, emotivi, imprevedibili, squilibrati. So che queste conclusioni sono parse a molti insoddisfacenti e che il caso Kennedy riappare periodicamente sulla stampa americana, più o meno con la stessa regolarità con cui noi riscopriamo il caso Moro e altre vicende degli anni di piombo. Ma il rapporto della commissione Warren resta l'indagine più scrupolosa e diligente finora realizzata sull'assassinio di Dallas. Il boccone è troppo ghiotto, tuttavia, perché maghi, veggenti, romanzieri, politici in cerca di notorietà e reporter spregiudicati siano disposti a mollare l'osso. Le segnalo, caro Caprioli, che fra le tante teorie vi è anche quella secondo cui Kennedy sarebbe sopravvissuto all'attentato. Qualche anno fa ero in un supermercato americano quando l'occhio mi cadde su un giornale in cui era riprodotta la fotografia di un vecchio in carrozzella, il volto coperto da una cascata di capelli bianchi. Il titolo gridava: « E' Kennedy, è vivo! » .



Diego Verdegiglio