00 27/04/2006 16:45
Cari amici del Forum,
un cordiale saluto a tutti (in particolare a roteoctober)dopo qualche giorno di assenza. Ho letto gli interessanti interventi e condivido pienamente le risposte di Carmelo Pugliatti sui quesiti posti in merito alle possibili motivazioni di Oswald. Il Rapporto Warren non indica nessuna ipotesi di mandanti che abbiano indotto Oswald a sparare a Kennedy. Possiamo tuttavia ipotizzare (ma resta appunto solo un'ipotesi, per quanto credibile)che la notizia giornalistica del corteo presidenziale in Dealey Plaza, sotto il magazzino nel quale lavorava, abbia potuto scatenare in lui la sindrome del dado da trarre, del "la va o la spacca", forse dell'ultima possibilità di compiere un gesto che dissetasse la sua arsura interiore di autoaffermazione. Abbiamo altre volte affrontato la contorta personalità di Oswald che lo indusse a negare qualunque circostanza possa incolparlo: il criminologo Vincenzo Mastronardi, nell'intervista che pubblico nel mio libro, mi ha spiegato molto bene che uno psicopatico paranoide tipo Oswald avrebbe negato qualunque cosa anche se fosse stato condannato a morte, "perfino nelle mani del boia". Il suo scopo è raggiunto ed è importante soprattutto per il suo Io interiore. Se avrà il carcere a vita, diventerà una celebrità: è questo che vuole. Agli altri negherà qualunque ammissione: la foto col fucile? Un falso della polizia. La pistola? Tanti la portano in Texas. La fuga dal magazzino? Il lavoro è stato sospeso e me ne sono andato al cinema... E così via. Il rapporto con CIA ed FBI è certamente ambiguo, ma io non credo che vi fosse un intenzionale complotto dei due enti governativi per "caricare" Oswald in modo che, alla prima occasione utile, prendesse il suo fucile per uccidere Kennedy. Già scrissi tempo fa che potrei forse immaginare un "conoscente" di Oswald che nei quattro giorni precedenti il delitto possa avergli ad esempio detto: "Lee, il momento che stavi cercando è arrivato. Kennedy passerà sotto il tuo magazzino. Porta con te il tuo fucile e cerca di fare ciò che mi hai sempre detto di voler fare. Se ci riesci, ti aiuteremo a farla franca e aiuteremo la tua famiglia". Ipotesi? Fantapolitica? Certamente. Non vi sono prove di un contatto del genere e l'assassinio di Tippit denota solo il desiderio disordinato di una fuga, di una impossibile salvezza. "Tutto è finito" esclama Oswald nel Texas Theatre mentre tenta di sparare ad un altro poliziotto che vuole disarmarlo. Tutto cosa? Forse la fuga a Cuba? Forse l'aiuto promesso e non mantenuto? Ipotesi. Solo ipotesi. Quel che è certo è che Oswald negò qualunque cosa gli si imputasse, anche quella più evidente. Suppongo che la futura apertura degli archivi secretati ci darà qualche ulteriore dettaglio sui rappirti di Oswald con CIA e FBI sia a Nw Orleans che a Dallas: probabilmente l'agente De Brueys o altri suoi colleghi (Hosty?) possono aver dato delle somme a Oswald al ritorno dall'URSS, per compiti informativi di bassissimo livello ma forse (e soprattutto) al fine di evitare altre sue mattane, dopo che il Dipartimento di Stato aveva accettato di riaccorglierlo in USA. Ma Oswald sfugge al controllo, Hosty non riesce a rintracciarlo nel novembre del '63.
Dopo l'attentato, CIA e FBI avranno i loro scheletri da tenere ben nascosti negli armadi: non avranno nessun interesse a far sì che la Commissione Warren scavi nelle pieghe del delitto per timore che vengano fuori verità sgradite. Solo con le commissioni congressuali degli anni Settanta si saprà, ad esempio, che il FBI di Dallas distrusse il biglietto lasciato nei loro uffici da Oswald, che minacciava ferro e fuoco se Hosty non avesse smesso di terrorizzare Marina Oswald con le sue visite a Irving. Oswald agì di propria iniziativa, ma era una molla già caricata, pronta a scattare alla minima occasione. Caricata o autocaricata? Entrambe le cose, direi. I suoi disordinati contatti con castristi, anticastristi, KGB, FBI e CIA lo convincono di essere al centro di un'azione rivoluzionaria di cui si sente il protagonista designato. Forse altri attentati (mafia?KKK?)erano in preparazione contro Kennedy (ma bisogna vedere quali sarebbero stati i calcoli utilitaristici per avere di colpo Johnson come presidente: qui i conti però non tornano molto). Forse Oswald ha fiutato qualcosa, intuisce che qualcuno potrebbe compiere quell'atto clamoroso prima di lui, precederlo nella gloria, e il corteo che passa sotto le sue finestre gli sembra un deciso segnale del destino: ora o mai più, o la va o la spacca, il dado è tratto. Il miracolo si compie: "Ce l'ho fatta! L'ho colpito! Tutto perfetto. E ora? Fuggire, allontanarsi, difendersi, negare. Negare tutto. Find me guilty, provate ad incastrarmi, se ci riuscite". Io mi dichiaro un capro espiatorio ("I'm a patsy!"), ma non so di chi, vedetevela voi". Oswald non è John Wilkes Booth, non salta sul palcoscenico gridando "Sic semper tyrannis!" dopo aver sparato a Lincoln (per quanto anche Booth scelga la fuga, la via di scampo). La sua personalità è molto più contorta, inquietante. Dopo la cattura è freddo: non suda, non muove un muscolo del viso. Il suo atteggiamento dopo la cattura appare glaciale e meccanico a tutti coloro che lo conoscono: sua moglie, suo fratello Robert, sua madre, i coniugi Paine. Oswald è interiormente appagato: ha fatto qualcosa di enorme, ora può accadere di tutto, anche il diluvio, a lui non interessa. Peccato che il 24 novembre un granello di sabbia imprevisto entri nell'ingranaggio del suo futuro eroico: è un granello insignificante, estraneo alle cose, entrato per caso, ma risulterà fatale. E' un uomo, ha una pistola, si chiama Jack Ruby.
Diego Verdegiglio