00 04/12/2006 17:37
Dimenticare la responsabilità Lee Harvey Oswald nell’assassinio Kennedy non è un problema di memoria, ma di concezione della storia. Di Lee Harvey Oswald ne sono nati tanti e tanti ancora ne nasceranno; il 43esimo anniversario dell’assassinio di uno degli uomini più influenti del pianeta, il presidente Kennedy, mostra (a chi lo vuol vedere) che gli accadimenti terreni sono anche guidati dalla sorte, dall’impulso, dalla casualità - come assenza di predestinazione, non come caos – senza che la volontà di controllo della società o delle singole persone possa intervenire.

Il motivo per cui il mondo ha rifiutato in blocco la conclamata responsabilità di Oswald nell’uccisione di JFK (come l’avrebbe rifiutata per Sirhan e Bob Kennedy ma per un qualunque signor Smith che compie un assassinio politico) non è solo da ricercare nei gravi difetti delle inchieste che seguirono i fatti di Dallas quanto nella negazione delle possibilità del singolo di infilarsi nei meandri della storia: un uomo solo non può uccidere un capo di Stato senza mandanti perché troppa è la sproporzione tra il carnefice e la vittima. A vittima illustre deve fare da contraltare una grande mano assassina. “Non guardiamo il come, guardiamo il perché”: questa è la mentalità di chi avvicina la storia come un plastico in cui ogni pezzo è lì per precisi motivi, preordinati in anni risalenti, e ogni mossa comporta una contromossa. Un plastico in cui la vita reale non può entrare perché nella vita reale si fanno anche scelte casuali, a occhi chiusi, si muore di malattia, di incidente, si muore di assassinio coperto dallo Stato ma si muore anche per caso (se l’assassinio è una fatalità).

Fino a pochi mesi prima dei fatti di Dallas la visita di Kennedy non esisteva, non era programmata; fino a pochi giorni prima non si era ancora deciso il programma della visita, compreso il passaggio in corteo in Elm Street. Uno dei tanti particolari che dovrebbe fare “suonare la campanella” del distacco tra macchinazioni virtuali e realtà ma che invece viene superata, così come tutte le obiezioni, dal dogma della Grande Mano che manovra il mondo, dal tettuccio dell’auto presidenziale messo giù per volere di JFK per le condizioni meteo improvvisamente migliorate (il Grande Vecchio guida anche le nubi…) al pollo di Bonnie Ray Williams, che fosse stato un po’ più grosso, avrebbe forse impedito a Lee Oswald di fare fuoco con il suo fucile dal suo posto di lavoro, al sesto piano di un deposito di libri scolastici.

È una storia squallida, un infame che toglie la vita a un grande: l’avessero ucciso in dieci, con in mezzo Castro, Hoover e Johnson, la sua morte sarebbe stata in qualche modo accettata. E invece no, la morte di Kennedy è senza senso proprio perché non ha un vero perché, come non hanno un perché la bomba in discoteca a Bali o gli spari nella schiena a John Lennon o il mitomane che uccide la gente per strada per sfizio. Perché sotto gli occhi di tutti è passato almeno una volta un grande uomo che, volendo, avremmo potuto uccidere. Perché è la vita.
Federico Ferrero